L’immunità al coronavirus ed alle sue varianti

<versione inglese>

Ai primi di gennaio i dati dei contagiati da Covid19 nel mondo sono quasi 90 milioni, i morti invece sono quasi 2 milioni.
(dati OMS).

In Europa, dall’inizio della pandemia, su 26.675.456 casi di ammalati in totale, circa la metà sono guariti (quasi 14 milioni ). In genere, sui media, si mettono in evidenza soprattutto e a ragione i morti che nel Vecchio Continente hanno raggiunto la significativa cifra di quasi 600 mila persone.
I malati di covid19, lo sappiamo, possono essere asintomatici, ma trasmettitori inconsapevoli del virus.
I pazienti con sintomi, in molti casi simili a quelli influenzali vengono trattati con farmaci, nelle abitazioni oppure, nei casi più gravi nelle strutture ospedaliere.
Secondo un recente studio realizzato presso il San Raffaele di Milano (novembre 2020) non ci sono attualmente farmaci specifici per curare la malattia, tuttavia l’esperienza in campo indica l’uso più frequente di: antivirali come il remdesivir che si utilizza soprattutto in fase precoce della malattia; pur approvato come farmaco, l’OMS nutre dei dubbi sulla sua efficacia nel ridurre la mortalità. Questa posizione, tuttavia, è stata criticata in quanto sembrerebbe davvero efficace quando viene somministrato in tempo. Altri antivirali sono in corso di sperimentazione.

Immunostimolanti servono a stimolare gli anticorpi dell’organismo contro la malattia, nella fase iniziale.
Si può, ad esempio, trasferire il plasma di un paziente guarito su quello malato.
L’efficacia di questa terapia in molti pazienti ricoverati è riferita a livello empirico soprattutto dagli operatori che l’hanno utilizzata.
Sono tantissime le persone guarite che donano il proprio plasma a beneficio di coloro che sono ancora ammalati.
Molti, inoltre, sono gli studi in corso d’opera che potranno dare indicazioni più precise sulla bontà scientifica della somministrazione del plasma, a determinate condizioni di operatività.
Riguardo agli anticorpi monoclonali prodotti in laboratorio, possono rappresentare un’ottima possibilità per combattere il virus specialmente nelle prime fasi della sua manifestazione. Attualmente sono in atto numerose sperimentazioni scientifiche per il loro concreto utilizzo.
Al San Raffaele è in corso di studio anche l’utilizzo di interferone 1.

Nei casi gravi, dove le risposte immunitarie al virus da parte dei pazienti sono sproporzionate, sono spesso usati i corticosteroidi , uno di questi il cortisone è conosciuto ai più come potente antiinfiammatorio.
I cortisteroidi vanno sempre utilizzati sotto stretto controllo medico, per gli effetti che possono causare all’organismo se non sono in quel momento i più indicati per l’ammalato.
Secondo molti studi realizzati recentemente, questi farmaci ridurrebbero la mortalità per Covid19 del 30%. L’anticoagulante eparina , inoltre, nei casi più gravi viene somministrata in aggiunta per evitare trombi all’organismo provato dall’infiammazione.

Inibitori di citochine infiammatorie.
Le citochine, infatti, risultano presenti in quantità elevate durante il decorso della malattia e i farmaci inibitori sono già presenti in commercio, utilizzati di fatto contro l’artrite reumatoide.
Sono in corso studi scientifici per verificarne la reale efficacia sui pazienti Covid19.
Continuando sul filo di Arianna della speranza occorre capire quando un paziente curato si negativizza e per quanto tempo potrà restare immune.
Non sono molti gli studi, a livello internazionale, dedicati a questo argomento.
La questione immunità

L’ospedale Mount Sinai di New York ha testato circa 30 mila malati di Covid in forma lieve ed ha riscontrato un’immunità media di circa 5 mesi rispetto alla contrazione della malattia in uno studio pubblicato sulla rivista Scienze.
Lo studio effettuato da La Jolla University in California, invece, su 185 pazienti tra i 19 e 81 anni di età, stima una risposta immunitaria dal 7° giorno successivo al contagio. Si è osservato un aumento degli anticorpi tra la seconda e terza settimana della malattia vicino al 100%, inoltre dalla ricerca si evince che molti pazienti riescono a sviluppare un’immunità di lungo termine.
Secondo uno studio della Monash University in Australia, pubblicato su Scienze Immunology, l’immunità al Covid19 dovrebbe durare almeno 8 mesi dal contagio.
Allo stesso risultato è arrivata la ricerca in Corea del Sud pubblicata su Emerging Infection Disease.
L’uomo , è evidente, sta combattendo una dura battaglia contro un coronavirus che muta in continuazione e che ha manifestato delle varianti che si trasmettono con molta più facilità (pensiamo alla mutazione inglese, a quella sudafricana, a quella USA ,ecc.) e che attacca fasce di età che comprendono sempre più anche i giovani.
Sappiamo che i decessi ultimamente sono aumentati con una frequenza maggiore e che gli Stati stanno agendo su più fronti per arginare e vincere la sfida con la pandemia.

I vaccini

Essenziale per vincere la battaglia contro il nemico invisibile è la campagna vaccinale che ormai è partita in quasi tutto il mondo.
Per la prima volta nella storia si stanno utilizzando vaccini che informano direttamente il nostro DNA dell’ esistenza della proteina Spike, quella del virus. L’obbiettivo dei vaccini mRNA in questione è quello d’impedire la diffusione del coronavirus nelle cellule, informandole dell’esistenza di una proteina specifica che deve essere combattuta con gli anticorpi.
Secondo alcuni scienziati questi tipi di vaccino sono facilmente “adattabili” alle varianti del virus in circolazione nel mondo perché basterebbe introdurre nelle cellule le nuove “informazioni” necessarie per combatterle.
I vaccini in questione mRNA più usati attualmente sono: Pfizer-BioNTech e Moderna.
Il primo è stato testato, con una velocità senza precedenti, su 43 mila persone, riscontrando un’efficacia contro il virus del 95%.
Il secondo è stato sperimentato con tempistiche simili, su 30 mila persone e presenta risultati positivi sul 94% delle persone.
Riguardo all’immunità si parla anche di due anni di tregua dal coronavirus, ma dati certi su questo aspetto ancora non ce ne sono.
Lo spettro dei vaccini di stampo tradizionale è più ampio.
In Gran Bretagna si è prodotto Astra Zeneca; in Italia è in corso di sperimentazione quello di ReiThera , prodotto in collaborazione con l’Istituto Spallanzani di Roma.
La casa farmaceutica sarà in grado di produrre 100 milioni di dosi l’anno. Nel corso del 2021, saranno disponibili 20-25 milioni di unità di prodotto.
A finanziare fin qui il progetto ci ha pensato la regione Lazio insieme al MIUR. Per proseguire, in accelerazione come la tragica situazione pandemica richiede, occorre una maggiore partecipazione statale di risorse finanziarie.
Il filo della speranza, dunque, sta tessendo con determinazione la sua tela.
Le tenebre ci sono ancora, fanno paura, ma si intravvede più di una luce in fondo al tunnel.

Cristina Palumbo Crocco

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