Sviluppo: solo Keynes può riaccendere il motore

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Fa un certo effetto sentire che il Fondo monetario internazionale si converte alla “rivoluzione keynesiana” e chiede investimenti pubblici in infrastrutture per combattere la crisi. Finora infatti l’FMI aveva prima indicato il rigore come la panacea di tutti i mali. Poi, di fronte alla persistenza della stagnazione, aveva invocato misure monetarie più forti. Ora, infine, si accorge finalmente che i tagli si effettuano meglio se i motori dell’economia sono ripartiti e che per farli ripartire non bastano gli stimoli finanziari della BCE o della Federal Reserve. Occorrono invece investimenti pubblici in infrastrutture, che aumentano la produttività delle economie e si ripagano anche in termini di rapporto tra debito e PIL. L’FMI ha calcolato infatti che un aumento dell’investimento in infrastrutture di un punto percentuale di PIL genera nelle economie avanzate un incremento dello 0,4% di PIL nello stesso anno e dell’ 1,5% entro quattro anni.

L’FMI invita anche fortemente la Germania ad investire in infrastrutture. Questo è infatti l’unico Paese d’Europa dove sono cresciuti sia il surplus di parte corrente con l’estero, sia i crediti finanziari netti con l’estero mentre gli investimenti interni sono scesi rispetto al risparmio. L’Europa non cresce se la Germania continua a risparmiare senza investire. E le istituzioni europee non hanno avuto la forza di richiamare la Germania ai maggiori investimenti che avrebbero trainato tutta l’eurozona.

Questa ricetta, ovviamente, vale anche per l’Italia. Per fare ripartire l’Italia non bastano gli aiuti della BCE e neanche gli 80 euro. Servono tagli alla pressione fiscale ed investimenti pubblici in infrastrutture. Ma non solo grandi infrastrutture, che per tirare cassa hanno bisogno di tempi lunghi. Servono anche opere piccole e medie, che possono partire subito, che possono innescare la miccia per far ripartire i motori.

E’ incredibile che nell’Italia del dissesto ideogeologico, delle città alluvionate, delle scuole da mettere in sicurezza, dei quartieri degradati da rigenerare, dei tanti ponti e gallerie da mettere in sicurezza e dai laboratori di ricerca che chiudono per mancanza di finanziamenti, rischiamo di dover restituire a Bruxelles 17 miliardi di fondi comunitari, destinati in massima parte al Sud. La commissione europea ce li ha messi a disposizione per progetti che abbiamo scelto noi ma condividendoli con Bruxelles. Progetti che, considerando anche i cofinanziamenti nazionali, salgono a 30 miliardi da spendere entro il 31 dicembre 2015. Se l’Italia fallisce l’obiettivo, questi fondi saranno affidati ad altri Paesi più capaci di utilizzarli. Si tratta di ciò che resta dei 49,5 miliardi di euro dei fondi strutturali europei per il 2007-2013 destinati all’Italia. L’Italia ne ha speso finora il 40% ma il restante 60% resta da finalizzare. I fondi dovrebbero stimolare la crescita dell’economia. Ma finora sono stati spesso utilizzati per una miriade di microinterventi territoriali del tutto svincolati da un piano di sviluppo: la “giostra del castrato” di Longobucco, la Festa dell’uva a Catanzaro, le “conversazioni del venerdì” a Vibo Valentia. Gli interventi che possono portare vero sviluppo, come quelli logistici e infrastrutturali, si impantano spesso sui ritardi progettuali, sui veti autorizzativi, sui cambi di scelta politica territoriale. Così il tempo passa e Bruxelles rivuole i soldi indietro. Come se ne esce? Le azioni da fare sono due: 1) chiedere eccezionalmente a Bruxelles flessibilità sull’utilizzo immediato di questi fondi, che dovrebbero poter essere impiegati , per esempio, anche per finalità di manutenzione straordinaria (ponti e viadotti stradali da mettere in sicurezza come quelli che Anas sta portando avanti con velocità o i quartieri urbani degradati da rigenerare); 2) prevedere una responsabilità anche erariale per il mancato utilizzo di questi fondi, in modo che chi rallenta o cincischia paghi. Tutto questo, peraltro, è perfettamente in linea con il patto di stabilità e crescita.

Ma non ci sono solo i soldi comunitari. Quanti sono i programmi governativi che hanno determinato prima una concorrenza agguerrita degli enti territoriali e delle Regioni per accaparrarseli salvo poi distinguersi per un’inerzia irresponsabile nello spendere? Basti pensare, tanto per fare pochi esempi, ai contratti di quartiere, al piano nazionale di edilizia abitativa, al piano città. Anche in questi casi occorrerebbe prevedere una precisa responsabilità politica, dirigenziale ed erariale per punire e sconfiggere l’inerzia. In questo modo si avrebbe anche un’altra credibilità quando si chiedono soldi e flessibilità a Bruxelles, quando si chiede l’autorizzazione a fare altri debiti mentre contemporaneamente si buttano via i soldi che già si hanno. E si avrebbe un’altra credibilità di fronte alle imprese che chiudono per mancanza di investimenti, ai cervelli in fuga, ai disoccupati che non trovano lavoro.

Domenico Crocco

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