La strategia che serve all’Italia

Mentre Venezia affonda nell’acqua e Roma nei suoi rifiuti, mentre gli indiani abbandonano l’ILVA di Taranto al suo destino e i governi nazionali cambiano colore politico e cadono uno dopo l’altro, la sensazione è che all’Italia, da tempo, e per molti versi anche all’Europa, manchi una strategia. Si naviga a vista, gestendo un’emergenza dopo l’altra: gli sbarchi illegali dei migranti, il rialzo delle aliquote iva, l’ennesima ricostruzione post terremoto o post alluvione. Ma non ci si chiede fino in fondo: dove va l’Italia? Che futuro vogliamo dare alla penisola più bella e più maltrattata del mondo? Un futuro legato all’industria, magari green? Ai servizi e al commercio? Ne si vuole fare la piattaforma logistica del Mediterraneo? Coltivarne la naturale propensione ad accogliere turisti? Perché il rischio è che senza strategia l’Italia, insieme al resto d’Europa, vada a sbattere. Contro i muri delle superpotenze, USA e Cina, che invece la loro strategia ce l’hanno ben chiara.

Di fronte agli inquietanti quesiti sul futuro dell’ILVA ci si domanda, ad esempio: ci serve l’acciaio? Serve all’industria italiana? Oggi come oggi serve, certo che serve. Il professor Carlo Altomonte dice che gli Americani ci definiscono con 4 F: Fashion, Forniture, Food and Ferrari. Il che significa meccanica avanzata, che è la nostra principale esportazione. Costruiamo e vendiamo macchine per gli imballaggi, per il taglio, per l’automazione e quindi i robot. Dunque macchine che si fanno con l’acciaio. Quindi lo stop all’Ilva significa un colpo mortale al cuore del sistema italiano. Si immagina una Italia senza acciaio? Allora bisogna porsi il problema di riconvertire l’intera economia italiana. Se si immagina un’Italia light, che punta sul digitale, sui monumenti e sul mare, se si immagina un’Italia ancor di più attrazione turistica del mondo, allora bisogna iniziare a ripulirla l’Italia, a cominciare da Roma che ne è il principale biglietto da visita e che affoga nei rifiuti e nei disservizi. E poi aumentare la dotazione di servizi del Meridione puntando fortemente sulle infrastrutture di collegamento e di connessione, quindi sia fisiche che digitali.

Cominciano già a circolare anche in Italia i primi esemplari di auto a guida autonoma su strade libere. Entro il 2025 ne saremo invasi. Oltre a considerare gli straordinari benefici per la sicurezza stradale e per la logistica, oltre a valutare i forti risparmi di spesa conseguenti, ci si è posti il problema di che fine faranno i tassisti e gli autotrasportatori? Lo stesso vale per la rivoluzione in atto nel commercio al tempo di Amazon, il gigante dell’e commerce che rappresenta sempre di più un’ alternativa al classico negozio. Basta girare gli ottici di una città per sentirsi dire che ormai nessuno compra lenti a contatto in negozio, perché ormai tutti comprano on line. Intanto le città italiane sono sempre più vuote di negozi. Ci si è posti il problema di immaginare il destino delle nostre città sempre più smart, sempre più digitali? Che fine faranno i tradizionali commercianti? Ci si è posti il problema di guidare la transizione? Di raccordare scuola e università alle nuove sfide del mondo economico e sociale? Di accompagnare, con incentivi e disincentivi, con una formazione che può coinvolgere anche i media, il passaggio al futuro?

La sensazione è che si navighi a vista, preoccupandosi spesso più dell’emergenza che della strategia. Una strategia che dovrebbe coinvolgere prima i ceti produttivi, il cui ascolto potrebbe avvenire attraverso il CNEL, il Consiglio nazionale dell’Economia e del Lavoro. E poi il Parlamento, dove le spinte “corporative” dovrebbero trovare una mediazione politica guidata dall’interesse comune. Questa strategia manca. Manca all’Italia. E manca all’Europa. Che quindi appare debole di fronte ai giganti , Stati Uniti e Cina, che invece, piaccia o non piaccia, la strategia ce l’hanno e la stanno attuando. La Cina, a cavallo dell’anno Duemila, ha messo a segno il colpo di entrare nella World Trade Organization (WTO), addirittura con clausole di favore. Una volta fatto il suo ingresso massivo nel commercio mondiale soggetto a regole che in Cina non esistevano e non esistono, la Cina ha messo fuori mercato l’industria dell’Occidente che, sia in Europa che in America, ha accusato il colpo subendo disoccupazione e crisi economica. Ma non si è accontentata. Ora la Cina, col suo miliardo e 400 milioni di abitanti, sta trasformando l’Africa nel suo serbatoio di materie prime e di prodotti alimentari. E non le basta di inondare il mondo con prodotti della sua manifattura a basso costo. Punta ai beni del futuro, all’intelligenza artificiale, al suo 5G, ha riempito anche lo spazio dei suoi satelliti e punta al controllo globale. Di questo gli Stati Uniti, la potenza mondiale antagonista, si sono accorti da tempo e per questo rispondono, piaccia o non piaccia, con l’orgoglio sovranista di Trump, che abbassa le tasse alle imprese americane e le difende da quelle cinesi con la minaccia dei dazi. Questo braccio di ferro, questa guerra fredda USA CINA potrebbe avvantaggiare l’Italia ed anche l’Europa, che potrebbe fare il terzo che gode tra i due litiganti, rilanciando la sua manifattura profittando dei dazi anticinesi. Ma questo non avviene ancora. Perché manca, ancora, una strategia.

Domenico Crocco

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