L’Italia , secondo l’ultimo rapporto Istat, ha dimezzato la sua produzione di beni e servizi (PIL) nel solo arco temporale di un anno (2017-2018).
Si è passati dallo 0,9% al 0,4%.
Anche il debito pubblico è aumentato, raggiungendo il 132,2% a fronte dell’85,1% della media europea.
La disoccupazione è sempre stata la bestia nera da combattere e anche qui il nostro Paese, con il suo 12,2% si distacca dalla media europea di un paio di punti percentuali.
Gli italiani si sa sono grandi risparmiatori. Il problema è che la ricchezza privata non viene investita in operazioni utili sul mercato che possano contrastare il calo occupazionale.
Politiche assistenziali sono sempre state efficaci in momenti di crisi solo per “tamponare” l’emorragia di povertà assoluta e relativa di un Paese. Politiche che negli anni hanno aumentato il carico del debito pubblico, che a sua volta aumenta di volume per far fronte agli interessi da corrispondere, specie riguardo ai titoli a medio e lungo termine.
L’iniezione di liquidità sul mercato europeo che la BCE ha abilmente garantito negli ultimi anni, ha sicuramente impedito il default o l’aggravio della crisi di alcuni Paesi dell’area Euro, tra cui l’Italia. La ricetta monetarista, tuttavia, rappresenta una ricetta insufficiente a garantire quel balzo necessario all’uscita da una crisi che dal 2008 attanaglia l’intero continente europeo.
Il nostro Paese ha molte risorse da offrire a dei potenziali investitori. Il Paese più ricco al mondo come patrimonio artistico, quello che vanta le migliori eccellenze in molti campi, ha invece difficoltà a farlo comprendere. E’ un paradosso questo che inquadra il Paese delle meraviglie come quello tra i più ingessati del mondo. Un gigante che è costretto, da decenni, a camminare lentamente con i piedi nel fango; che affronta con orgoglio le sue battaglie, ma che fa fatica a fare squadra.
L’Italia ha ancora un DNA di straordinaria bellezza e competenza, ma con un livello di riottosità che non permette la leggerezza. La leggerezza nelle contrattazioni, negli accordi tra i partiti, nelle intese tra imprese e sindacati.
Sono centinaia, se non migliaia, le associazioni che competono l’una con l’altra.
Il particolarismo, quando si deve affrontare una crisi che indebolisce fortemente perfino la granitica Germania, non deve affogare le grandi possibilità di attrazione degli investimenti che il nostro Paese merita di ottenere.
Bisogna avere il coraggio di smantellare davvero l’enorme carico di burocrazia che pesa come un macigno su ogni trattazione economica.
Bisogna avere il coraggio di ridefinire i contratti di lavoro aziendali, sia a livello nazionale che locale.
Bisogna che i media facciano da volano e non penalizzino l’Italia raccontando quasi sempre le pecche e quasi mai le eccellenze del proprio Paese.
Occorre, insomma, un nuovo patto sociale. A tutti i livelli. Occorre che le forze che governano l’Italia s’incontrino periodicamente con le grandi organizzazioni che influiscono in modo significativo sull’andamento del sistema-Paese. E quindi con i sindacati, con i rappresentanti di Confindustria, con quelli di Confcommercio, con i rappresentanti degli Enti locali, con quelli delle grandi Banche, con i grandi operatori finanziari, ecc.
Il Sud, inoltre, deve comunicare con il Nord del Paese e viceversa, perché solo così l’Italia potrà finalmente occupare il posto che merita nel circuito internazionale.
In Spagna, anni fa, questo metodo ha permesso al Paese fra i più poveri in Europa di spiccare il volo.
Abbiamo necessità di convocare gli Stati Generali, di unirci e non di dividerci. Non è questo il tempo delle lotte intestine, ma quello degli impegni reciproci da mantenere. Un nuovo patto sociale, infine è quello che ci vuole per poter avere nuova fiducia nel futuro, il futuro che dobbiamo disegnare per le nuove generazioni.
Cristina Palumbo Crocco