Una disciplina contro la corruzione
di Luigi Giampaolino
Presidente Emerito della Corte dei Conti
1. La mia testimonianza è quella di un magistrato di lunga carriera, tutta “spesa” nel settore delle Istituzioni: nella Pubblica Amministrazione, prima; nella Magistratura ordinaria poi e, quindi, in una Magistratura amministrativa superiore, dedicata proprio alla pubblica amministrazione in funzione di controllo e, talvolta, di riparazione o ristoro di danni da essa patita, se non di sanzione per gli illeciti amministrativi in essa commessi. Un magistrato che, forse, di valido potrebbe apportare solo il ricordo della sua esperienza vissuta.
2. Si potrebbe rammentare così che specie il periodo del suo esordio nella Magistratura amministrativa coincideva con la recessione – suffragata dal contributo della riflessione e della condivisione della coeva più autorevole dottrina amministrativistica– del principio di legalità nell’azione amministrativa, più fortemente sollecitata, quest’ultima, ormai, dai principi dell’efficienza e della tempestività e, quindi, del buon andamento.
Da qui il fastidio, se è lecito usare questo termine, per i controlli della legalità e per i controlli in genere, specie per quelli esterni e svolti in posizione di terzietà; controlli ritenuti formali, sino alla loro sostanziale abolizione per interi settori dell’ordinamento, come nel caso degli enti locali.
Questo attutirsi della percezione del principio di legalità come bene in sé, seppure a favore di altri principi, pur parimenti da perseguire e parimenti costituzionalmente tutelati, e, conseguentemente, l’avversione, quasi di principio, agli strumenti dei controlli o di analoghi rimedi avvertiti soprattutto quali intralci, non poco ha contribuito all’allentamento del senso del rispetto delle regole, con riflessi, ci sembra, anche, sullo stesso spessore professionale e, sia consentito osservarlo, morale dei soggetti operanti.
Intanto, contemporaneamente, si estendevano, nella loro interpretazione e nella loro pratica applicazione, figure di reato (l’abuso di ufficio, art. 323 c.p.; l’interesse privato in atti di ufficio, art. 347 c.p. poi abrogato dalla l. 26 aprile 1990, n. 86) fino allora rimasti limitati ad un’applicazione marginale sia con riguardo ai soggetti, nei cui confronti farli valere, sia con riguardo alle attività nelle quali riscontrare l’illecito.
Proprio in quegli anni, infatti, gli allora ponderosi repertori cartacei di giurisprudenza incominciavano a presentare, per queste voci (abuso di diritto; interesse privato, ecc.) richiami non più e non tanto ai custodi dei beni pignorati, al depositario, ecc., ma ai funzionari e ai titolari di ben altre funzioni.
Qualche anno prima, peraltro, era venuta meno, anche per talune figure della pubblica amministrazione, l’istituto della garanzia amministrativa, posto proprio a tutela della funzione ammnistrativa in sè, e da qui, anche – ma non certo per questo – l’espandersi dell’intervento – l’ ”irrompere” fu anche detto – del giudice penale.
Ma, già, allorchè alla fine degli anni ’80, si procedette alla riforma dei reati contro la P.A., che sfociò poi nella legge n. 85 del 1990, fu rilevato che il mondo del diritto amministrativo e della pubblica amministrazione in generale era rimasto del tutto assente nel dibattito che riguardava proprio i reati contro la P.A..
Fu infatti osservato che non si rinvenivano studi o scritti o comunque approfonditi interventi di cultura di diritto amministrativo in questa problematica dei reati contro la P.A. che pur presentava, per la sua intima natura, tanti aspetti ed argomenti di competenza propria del diritto amministrativo o, comunque, attinente agli studi dell’organizzazione e dell’azione della Pubblica Amministrazione.
Ed osservazioni ancora più penetranti furono formulate allorchè – in quello stesso periodo – si procedette alla c.d. depenalizzazione, la legge 24 novembre 1981, n. 689, intitolata “modifiche al sistema penale”.
Si rilevò allora che, per questa, invece che dar luogo alla configurazione di tipi di illeciti riproducenti, nel loro schema, specie ontologico, mini-reati, rimessi, poi, per la loro verifica, alla cognizione del giudice civile, si sarebbero dovuto, più propriamente, configurare illeciti amministrativi in senso proprio, quali, già in passato, postulati da antica ed autorevole dottrina (Zanobini, Le sanzioni amministrative, Torino, 1924, tralasciando, peraltro, gli Autori ancora più risalenti, come il Raggi ed il Rocco), illeciti, vale a dire, espressioni dello stesso potere amministrativo, esecutivo, della Pubblica Amministrazione (gli “abusi” li chiamò, in seguito, Giannini, Dir. Amm., 1970,II, 1303) che nell’ambito dello stesso potere amministrativo dovevano trovare i loro rimedi, ripristinando, con propri strumenti, l’assetto degli interessi legislativamente previsto e che era stato turbato.
Ed allochè, in seguito – ma qualche anno dopo – si dovette affrontare la grave evenienza di eclatanti scandali riguardanti la materia degli appalti pubblici e che fu catalogata sotto il nome di “Tangentopoli”, si scelse (L. 11 febbraio 1994, n.109) di individuare il rimedio, più che nell’esercizio dell’azione penale, in una riforma organizzativa e funzionale del settore con l’obiettivo di ridare vigore e dignità, in questo ambito, all’amministrazione, ricostituendo quelle istanze e quelle misure che l’avrebbero resa capace di trovare al suo interno rimedi e sanzioni alle sue disfunzioni, come era detto nella relazione al disegno di legge che poi divenne la legge 11 febbraio 1994, n. 109, la c.d. legge Merloni.
Fu questa un’applicazione della teoria dell’ “ordinamento in sé concluso” (Berti, 1963 e 1984): il proliferare, nella pratica giudiziaria, dei delitti contro la P.A. era ritenuta anche la conseguenza del venir meno della pubblica amministrazione come di un ordinamento che aveva, anzitutto, in se stesso, gli accorgimenti ed i rimedi per prevenire devianze ed ovviare a disfunzioni.
Ma questa ormai è storia passata e non conviene indugiare su di essa potendo affiorare un sentimento mesto di sterile rammarico per le occasioni mancate; per il rifiuto alle proposte avanzate; per il disconoscimento e lo snaturamento ed, infine, la cancellazione di quanto, pur con tanta fatica, si era riusciti a costruire; per l’abbattersi, infine, su di esso, di nefaste evenienze.
3. Conviene, invece, che da quelle esperienze, dalle acquisizioni per altro verso fatte proprie dall’ordinamento e dalle situazioni che, nella realtà delle cose, oggi sussistono e si svolgono, evidenziare taluni profili, dall’ambito dei quali prendere le mosse per esaminare l’attuale disciplina–rectius, il complesso delle diverse discipline – che oggi si occupano della corruzione, o, anche a questo proposito , dei vari fenomeni delle gravi disfunzioni amministrative, sino agli eclatanti fatti delittuosi del “mercimonio dei pubblici uffici” – come l’antica dottrina penalistica chiamava la corruzione – e dei suoi possibili, augurabili, sviluppi.
Senza dubbio, anche per le esperienze che sino ad ora si sono ricordate, il primo profilo che viene in rilievo è quello dello stato, normativo e di fatto, della nostra Pubblica Amministrazione.
Sarebbe un fuor d’opera trattenersi sulle sue deficienze e sulle sue disfunzioni: dalla improvvida provvista del suo personale alla stessa consistenza di questo, alla sua professionalità, al suo aggiornamento. A ciò dovrebbe provedere la c.d. riforma Madia, ma, non poche perplessità sorgono in proposito.
Ed altre preoccupazioni che, attualmente, riguardano la nostra pubblica amministrazione derivano dall’irrisolto rapporto tra potere politico ed apparati amministrativi, e, quindi, dal problema centrale della dirigenza, sulle cui modalità di reclutamento e sul cui status non poche perplessità si nutrono, con riferimento al numero, alle professionalità, alla sua collocazione in un ruolo unico o meno, tutti aspetti che non poco contribuiscono alle cause della corruzione e devono essere tenuti presenti.
Né va pretermessa la configurazione sempre più accentuata dell’ordinamento come un ordinamento pluristituzionale, nel quale diversi ed equiordinati soggetti agiscono in esso, emanando norme ed adottando provvedimenti, sempre più numerosi e talvolta collidenti, dando luogo, altresì, ad una iper-regolamentazione, di vario livello, vera ipertrofia patologica che si ripercuote sulla stessa attività ammi12/07/2017nistrativa sempre più bisognevole di semplificazione e chiarezza.
Da qui, altresì, il sorgere e l’incrementarsi, specie per il passato, di una “normativa in deroga”, le cd. ordinanze in deroga, anche al di fuori della materia propria della protezione civile, foriere – come l’esperienza insegna – di gravi disfunzioni amministrative, economiche, di costume.
Ma, per l’aspetto più propriamente amministrativo, anche altri mutamenti hanno influito non poco sull’alterazione della stessa configurazione della Pubblica amministrazione, e non poco hanno contribuito alle sue disfunzioni delle quali qui ci si occupa.
Il proliferare di una forma giuridica privatistica, vale a dire, del modulo societario, configurato e concesso, com’è noto, nel diritto privato, per chi affronta il rischio dell’intrapresa imprenditoriale ed utilizzato, invece, nel campo pubblicistico, oltre che per l’uso del modulo organizzativo, per il regime privatistico e privilegiato in ordine alla responsabilità patrimoniale del quale il soggetto, ancorchè proprietario e gestore di pubbliche risorse, viene ad usufruire, sfuggendo, di conseguenza, alle cautele e ai rigori della contabilità pubblica.
Il ritirarsi, infine, delle pubbliche amministrazioni, in quanto tali, da interi settori, e proprio nel campo dei lavori, servizi e forniture, attraverso l’istituto della concessione, ampliata nei suoi oggetti e nella sua stessa configurazione, per giungere al ricorso di figure di appalti nelle quali la stessa progettazione dell’opera può essere rimessa per molta parte al privato, con un arretramento delle pubbliche amministrazioni nelle fasi della progettazione e realizzazione dell’opera. Arretramento che non poco, nel tempo, ha influito sull’indebolimento della preparazione professionale, soprattutto tecnica, degli apparati preposti a materie di alta specializzazione, com’è il caso, appunto, delle materie dei lavori pubblici, dei servizi e delle forniture che sembrano tanto interessati, com’è noto, dai fenomeni corruttivi.
Ed, infine, va ricordato un peculiare aspetto, non sempre ben evidenziato e tenuto presente: ci si riferisce alla diversità dei valori perseguiti dal nostro ordinamento interno da un lato, e dall’ordinamento comunitario, dall’altro.
Il nostro ordinamento interno era – ed è – prevalentemente volto a tutelare gli interessi che l’amministrazione istituzionalmente deve perseguire e la corretta gestione delle risorse pubbliche ad essa affidate e da essa impegnate, mentre l’ordinamento comunitario, nella sua attenzione al mercato, e, per esso, alle imprese ed alla concorrenza, ha avuto sempre il fine prevalente di tutelare anzitutto la parità di accesso, per le imprese, che sono impegnate nel settore dei lavori, dei servizi, delle forniture e, con essa, il proficuo e lecito utilizzo, da parte delle imprese, delle risorse pubbliche che in questo settore sono immesse in misura spesso molto considerevole.
La diversità degli scopi finali dell’una ovvero dell’altra impostazione e delle conseguenti discipline, lungi dall’essere confliggente, appare comunque di chiaro significato e di particolare valenza ed essa attraversa tutta la vicenda dei contratti pubblici nei suoi molteplici momenti e rifluisce sui profili istituzionali, su quelli normativi, e su quelli contrattuali.
A questo proposito si ritiene che, non sempre, i vari operatori, a tutti i livelli, ne abbiano avuto piena contezza e se ne siano fatto carico.
E fu proprio per la salvaguardia della concorrenza e del mercato che, nella sede comunitaria (cfr. Monti, Commissario alla Concorrenza), si avvertì l’esigenza che, nel settore degli appalti pubblici, fosse prevista un’Autorità munita di indipendenza dal potere politico, burocratico ed economico e chiamata all’esercizio dell’imparzialità nei confronti dei diversi interessi in gioco.
E fu nella sede dell’Autorità di tutela del mercato e della concorrenza che, nell’ambito del nostro ordinamento interno, la sua istituzione fu, per la prima volta, richiesta (Amato).
4. Infine, non va tralasciato di ricordare, per completezza, che il nostro ordinamento, agli inizi dell’anno 2000 ha conosciuto un’importante e rilevante innovazione, quella del D.lgs. 8 giugno 2001, n.231 che introdusse nella legislazione italiana la responsabilità “amministrativa” delle persone giuridiche, molto modellata, per l’aspetto comminatorio delle sanzioni, sul paradigma della fattispecie penale.
Da qui la nascita del D.lgs. 231/01.
Tale normativa, in vigore dal 4 luglio 2001, introdusse per gli Enti, nell’ordinamento italiano, in conformità a quanto previsto anche a livello europeo, un nuovo regime di responsabilità denominata “da reato”, derivante dalla commissione o tentata commissione di determinate fattispecie di reato nell’interesse o a vantaggio degli enti stessi, affontando con la previsione di regole interne che le imprese si dovevano dare in base alla nuova normativa per evitare la commissione di reati da parte di propri dipendenti.
Al di là degli aspetti tecnici, la svolta consistè nel fatto che lo Stato chiedeva alle imprese stesse di fare attività di polizia interna e di dotarsi di strumenti di verifica, di prevenzione e disciplinari.
E’ per questo che, negli ultimi tempi, per i fenomeni corruttivi nel settore pubblico si invocò una “231”, come fu metaforicamente detto, per la Pubblica Amministrazione.
Ed invero, la 190 del 2012 – con le sue figure organizzatorie (il “Responsabile della prevenzione della corruzione”) i suoi piani, le sue responsabilità e le sue sanzioni, non poco richiama l’intelaiatura della legge n. 231 dell’8 giugno 2001.
Non va, infine, pretermesso che, per la lotta alla corruzione, è anche stata invocata una disciplina complessa e penetrante, configurante quasi un ordinamento penale speciale, come quello prevista per la lotta alla mafia.
Ed è quest’ultima, un’annotazione che occorre tener presente per quanto appresso si dirà.
5. Intanto, in campo sovranazionale, erano intervenuti vari ed importanti atti.
Trattavasi di documenti sovranazionali, esorbitanti dallo stesso ambito comunitario e coinvolgenti, quindi, altri Paesi estranei alla comunità, molto promossi e sollecitati in ambito O.C.S.E., sino alla risoluzione sulla repressione di pratiche corruttive adottata dall’O.N.U. nel 2003, dando la prova dell’alta valenza economica del fenomeno corruttivo e della percezione di un’esigenza di carattere internazionale.
Trattavasi di pattuizioni alle quali ha preso parte il nostro Paese, donde le leggi di ratifica in seguito approvate.
Da qui una disciplina nuova e variegata, di cui il nostro ordinamento ha dovuto farsi carico, provvedendo a modifiche varie e con riferimento alle quali, anche formalmente, prese le mosse il procedimento legislativo che si concluse con la legge n. 190 del 2012 che è la prima di quelle leggi che segna, nel nostro ordinamento, un mutamento di strategia e di prospettive e che, insieme ai decreti-legislativi n. 33 del 2013, n. 39 dello stesso anno, fa parte di quel corpus normativo attualmente vigente e di cui in seguito si parlerà.
In particolare, già l’atto introduttivo del procedimento legislativo si richiamava all’art. 5 della detta Convenzione (ratificata, come si è detto, con legge 3 agosto 2009, n. 116) a norma della quale ciascun Stato, parte della Convenzione, doveva elaborare, applicare e perseguire, conformemente ai principi fondamentali del proprio sistema giuridico, politiche di prevenzione della corruzione efficaci e coordinate che favorissero la partecipazione della società e rispecchiassero i principi dello stato di diritto, di buona gestione degli affari pubblici e dei beni pubblici, d’integrità, di trasparenza e di responsabilità.
Ed è dall’art. 6 della stessa Convenzione che prese le mosse il testo legislativo che, nella sua definitiva stesura, ha assunto la veste della legge 6 novembre 2012, n. 190.
Le misure adottate da questo provvedimento anticorruzione, al di fuori di quelle di natura propriamente penalistica, com’è noto, possono essere così catalogate:
1) misure ordinamentali; 2) misure amministrative, sia con riferimento agli organi, sia con riferimento alle attività (si pensi ai piani); 3) misure riguardanti i soggetti che agiscono nell’ambito dell’Amministrazione, a parte talune norme riguardanti specifici settori (per es. gli appalti pubblici).
Le misure ordinamentali – si sostanziano nella creazione dell’Autorità prevista dalla Convenzione dell’Organizzazione delle Nazioni Unite contro la corruzione e dalla Convenzione penale sulla corruzione fatta a Strasburgo.
Trattasi di una misura che può definirsi “ordinamentale” dal momento che essa sembra fuoriuscire dall’ordinamento della pubblica amministrazione intesa in senso stretto, e dal potere esecutivo, tout court, e configura, come di recente si è detto, “un’Autorità tecnica titolare di una serie assai ampia di poteri di regolazione, di vigilanza, di sanzione, che, seppure in linea con l’indirizzo politico parlamentare, svolge le sue funzioni al riparo di ogni interferenza del potere politico (Nicotra, pag. 16).
Le ulteriori misure – quelle amministrative – possono distinguersi in tre specie: quelle ricadenti sull’organizzazione dell’amministrazione; quelle riguardanti la configurazione dell’attività dell’amministrazione; quelle riguardanti i soggetti della pubblica amministrazione.
6. Lo studio di queste varie misure è stato il precipuo oggetto del vostro Master, e quanto a voi è stato illustrato e da voi appreso non abbisogna qui di ulteriore chiosa.
Quel che va evidenziato è che con la legge n. 190 del 2012 contenente le disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione e dell’illegalità nella pubblica amministrazione si è dato luogo ad un corpus legislativo di cui la legge n. 190 rappresenta la legge generalis – corpus costituito:
- dal il Decreto legislativo 14 marzo 2013, n. 33 recante il riordino della disciplina riguardante gli obblighi di pubblicita’, trasparenza e diffusione di informazioni da parte delle pubbliche amministrazioni
- dal il Decreto legislativo 8 aprile 2013, n. 39 in materia di inconferibilita’ e incompatibilita’ di incarichi presso le pubbliche amministrazioni e presso gli enti privati in controllo pubblico,
- dal il Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n. 235 sul testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilità e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non colposi,
e con le ulteriori norme, contenute
- dal Decreto legge 21 giugno 2013, n. 69 – contenente disposizioni urgenti per il rilancio dell’economia, convertito con modificazioni dalla L. 9 agosto 2013, n. 98
- e dal Decreto-legge 31 agosto 2013, n. 101 – contenente disposizioni urgenti per il perseguimento di obiettivi di razionalizzazione nelle pubbliche amministrazioni convertito con modificazioni dalla legge 30 ottobre 2013, n. 125.
Si è in presenza di un corpus legislativo che costituisce, nella sua portata, veramente quel codice del retto agire e dell’integrità per la Pubblica Amministrazione e dei suoi operatori; un complesso di norme che dovrebbe salvaguardare la stessa dalle disfunzioni, talvolta molto gravi e che vanno sotto il nome della “maladministration”, di cui, ormai da tempo si è parlato, anche come anticamera – se non uno degli aspetti – della delittuosa corruzione penale, “ il mercimonio”, come si è detto, dei “pubblici uffici”.
Orbene, tutto questo encomiabile apparato di misure normative ed amministrative è posto sotto l’egida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, costituita, come si è detto, con la legge 190 del 2012, a seguito della “mutazione genetica” (come è stato autorevolment6e detto, F. Patroni Griffi, Prefazione al volume collettaneo su quest’Autorità, curato dalla Prof.ssa Ida Angela Nicotra) della precedente Autorità di vigilanza sui contratti pubblici, alla quale era stata unita la esistente CIVIT, Commissione Indipendente per la Valutazione, la Trasparenza e l’Integrità delle amministrazioni pubbliche.
Come innanzi si è detto, l’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici sorse a seguito di un duplice input, espressione di una duplice esigenza che, come pure si è detto, attraversa tutta la materia, talvolta unificandosi o sommandosi, tal’altra duplicandosi o diversificandosi: l’esigenza, vale a dire, della tutela della concorrenza per il mercato e nel mercato; l’esigenza di garantire il retto agire delle pubbliche amministrazioni e l’oculata spendita delle pubbliche risorse di cui le pubbliche strutture, nelle loro pur variegate forme giuridiche, dispongono ed impegnano, specie in alcuni peculiari settori (lavori pubblici, servizi, forniture).
L’Autorità di vigilanza sui contratti pubblici ed ancor prima, quella di vigilanza sui lavori pubblici, fu posta dalla legislazione dell’epoca a chiusura di un sistema che configurava un ordinamento sezionale ripetendo uno schema che il nostro ordinamento aveva già conosciuto e per quanto consta, fino ad allora, ben sperimentato, vale a dire il settore del credito.
Ora, invece, la più recente legislazione di questi anni, a partire dall’anno 2012, facendosi carico dei valori della trasparenza e dell’integrità della Pubblica Amministrazione, intesa in senso lato, valori rapportabili ai principi costituzionali di cui all’art. 97 Cost. ed affidandoli all’Autorità Nazionale dell’Anticorruzione, ha costituito un sistema che ben sopravanza – e non poteva essere diversamente – lo schema dell’ordinamento sezionale.
Ciò ha comportato altresì il cumulo, in capo alla stessa Autorità, di funzioni diverse: funzione normativa, funzione consultiva, di vigilanza, di indirizzo; funzione sanzionatoria, di risoluzione di contenziosi, di applicazioni di congegni molti simili a quelli previsti nella legislazione antimafia (D.L. n.90 convertito, con modificazioni, dalla legge 2014 n.114) ecc., che dà luogo ad un sistema il quale si affianca a quello amministrativo e governativo e, per qualche aspetto anche al potere giudiziario, con interferenze, per tutti questi aspetti, non sempre ben chiarite e che, specie per la funzione normativa, ha indotto taluno, in dottrina, a parlare di un sistema extra-ordinem (Lombardi, Satta).
In particolare, per quanto riguarda la funzione normativa, un’antica ed autorevole dottrina distingueva tra provvedimenti normativi e provvedimenti amministrativi ed attribuiva ai primi il potere di introdurre nell’ordinamento valori nuovi completando l’assetto dei valori portato dall’atto primario. Il provvedimento amministrativo, invece, era (ed è) espressione del solo potere esecutivo e della conseguente attività puramente attuativa.
Proprio per la capacità di innovare l’ordinamento, il provvedimento normativo (si pensi ai regolamenti) se proveniente da organi dell’esecutivo era circondato da particolari cautele (parere del Consiglio di Stato, delibera del Consiglio dei Ministri, registrazione della Corte della Corte dei Conti).
Il parere del Consiglio di Stato, sul decreto delegato recante il Nuovo Codice, si rifà ad una tale fondamentale distinzione e distingue tra attività regolatoria o di regolazione ed attività di regolamentazione, essendo solo quest’ultima, secondo l’antica terminologia, un’attività normativa.
Sta di fatto che – come è stato rilevato dalla dottrina più attuale (F. Giuffrè) – la correlazione tra la tutela della concorrenza nel mercato e per il mercato e la prevenzione della corruzione evidenzia l’esigenza di una regolamentazione di qualità, semplice e comprensibile, che – è stato efficacemente detto – “sappia declinare nel campo della regolazione il principio della trasparenza”.
Ciò – si è affermato – presuppone il sistema aperto delle fonti secondarie”, conseguenza di una “fuga” del legislatore dalla materia che non riesce a regolare, e, per così dire, dominare.
Da qui il ricorso alle Autorità, create proprio per presidiare taluni settori e talune esigenze, in quanto provviste della necessaria competenza tecnica.
Questa della competenza tecnica, sia consentito ricordarlo, era la legittimazione prima delle Autorità: si ricordi l’aureo non ponderoso ma tanto raffinato libro della Manetti (del tutto non ricordato – nella bibliografia dei più recenti scritti che pur ricordano, però, il discorso di Schmidt alla Banca Commerciale di Berlino, da cui le idee e il dibattito riguardante le Autorità presero le mosse).
Competenza tecnica che, ci si augura, vada sempre privilegiata, curata e salvaguardata.
Il tutto, per di più, legittimato dalla circolarità di un processo di consultazione con gli stockholders e della condivisione finale del processo decisionale, fondamento della soft regulation, demandata all’Autorità ed avallata dal Consiglio di Stato, che è coinvolto, di frequente, dall’Autorità, per la sua funzione consultiva, nella emanazione delle linee guida.
“Soft-regulation” che contribuisce pure a modellare, nella realtà concreta delle pubbliche amministrazioni, gli obblighi di imparzialità, di trasparenza e pubblicità.
7. L’attuale sistema, pertanto, molto si allontana dall’antico modello: potere legislativo, potere esecutivo, potere giudiziario e dal binomio sanzioni amministrative – sanzioni penali; attività amministrativa di prevenzione, attività giudiziaria di repressione.
Esso costituisce, come si è detto, sotto l’egida dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, un ulteriore sistema rispetto al quale la pubblica amministrazione, più che protagonista, è, ancora una volta, l’oggetto delle funzioni altrui.
Trattasi, però, di un sistema configurato da norme di diretta derivazione da principi costituzionali: la legalità, l’imparzialità, il buon andamento.
E’ soprattutto il principio dell’imparzialità, nella sua attuazione amministrativa della trasparenza, quello che, nella più recente disciplina, trova la sua esaltazione ed il suo svolgimento.
Peraltro, già negli anni ’70, l’allora giovane dottrina penalistica (Severino, Bricola, Tagliarini, ecc.) aveva riletto gli stessi reati contro le P.A. – scritti, com’è noto, e come il Codice penale afferma nella relazione che lo accompagna, per difendere il prestigio e “l’onore” della P.A. – come fattispecie delittuose il cui oggetto era appunto la lesione del bene dell’imparzialità della P.A..
La coincidenza (oltre che rivelare la acuta sensibilità della dottrina penalistica verso i sopravvenuti valori costituzionali) dimostra l’ovvia e sostanziale unità dell’ordinamento e la superiore, fondamentale, valenza di alcuni valori della nostra Costituzione.
Orbene, nei confronti di un siffatto sistema che vede l’emergere di un apparato regolatorio – se non normativo – che guida, vigila e sanziona, nel contesto di una regolamentazione sempre più ampia e che non conosce sosta, e, soprattutto, non appare liberata dalle sue più gravi disfunzioni della iper–regolamentazione e dalla poca chiarezza e mancata semplificazione, occorre ancora attendere affinchè le pur numerose misure adottate conseguano i loro risultati.
Senza dubbio, un lodevole cambiamento di rotta è stato compiuto dall’anno 2012: si è abbandonato il pan–penalismo e si è dischiuso il campo – quanto meno sotto l’aspetto normativo ed ordinamentale – a variegate misure di natura amministrativa (di organizzazione, di divieti, di limiti e di limitazioni) e si è, soprattutto, spostata la barra dell’azione dalla repressione alla prevenzione.
Le norme sulla pubblicità e la trasparenza; quelle sulla inconferibilità e sulle incompatibilità degli incarichi; quelle stesse sulle ineleggibilità sono tutte norme che conformano il modo di essere dell’amministrazione ed il modo di comportarsi dei pubblici impiegati e di quanti si trovano a svolgere pubblici servizi o chiamati ad esercitare pubblici poteri.
Certo, in presenza di una così vasta e dettagliata disciplina non può non venire in mente, per contrasto, l’episodio del Minghetti, uno dei protagonisti del nostro Risorgimento e uno degli statisti annoverato tra i Padri della Patria, il quale, in epoca ormai antica, manifestò la sua contrarietà ad una disciplina del pubblico impiego dal momento che Egli riteneva ed affermava che “non potessero essere dettati principi alle coscienze”.
Se si è dovuto giungere ad una così dettagliata disciplina in tema di pubblicità e trasparenza, di inconferibilità e di incompatibilità, nonché in tema di inelegibilità, è evidente che la situazione presentava aspetti molto preoccupanti che richiedevano espliciti rimedi dettati dalla legge. Essi, pertanto, a ben vedere, sono la prova indiretta della sussistenza dei gravi mali.
Ed il trattamento e la somministrazione dei rimedi si sono dovuti affidare, per tutte le pubbliche amministrazioni, intese nel loro senso più ampio, ad una Autorità terza ed estranea alla Pubblica amministrazione, quasi escrescenza – se ci è consentita la metafora – dell’ordinamento amministrativo ed istituzionale già conosciuto.
E le escrescenze, com’è noto, sono quasi sempre sintomatologia di patologie, spesso, anch’esse, gravi.
Il discorso, quindi, torna, nelle sue conclusioni, all’Amministrazione, nell’auspicio che il suo cuore torni a battere ed il flusso fisiologico del suo sangue torni a scorrere rigoglioso.
Luigi Giampaolino
Presidente Emerito della Corte dei Conti