di Raffaele Cantone (Presidente ANAC)
Ultimamente ho letto il libro “Perché le nazioni falliscono”, di Daron Acemoglu e James Alan Robinson. Il titolo della traduzione italiana non mi è piaciuto, ma il libro sì. Vi si sostiene che il discrimine fra lo sviluppo e il sottosviluppo, la povertà e la ricchezza economica e civile dei Paesi non è, in fondo, la disponibilità delle risorse naturali, la forza militare e politica o le altre tradizionali prerogative che abbiamo imparato a conoscere: è fra il buon governo e il cattivo governo. Nelle differenti epoche storiche e in contesti molto dissimili, il buon governo è stato l’elemento che ha consentito la migliore e più duratura crescita economica, la penetrazione della ricchezza fin nei più profondi strati della popolazione, ma anche la coesione sociale, aumentando di conseguenza non solo le possibilità economiche e – forse ben più importante – il nostro senso civico. Il buon governo è quindi un fine in sé, fondamentale per aumentare la fiducia dei cittadini e aumentare la ricchezza prodotta.
La lotta alla corruzione è uno dei mezzi del buon governo. Il malaffare infatti non solo comporta la distrazione di ingenti somme erariali che potrebbero essere usate per altri fini. Comporta, cosa peggiore, la distruzione del tessuto sociale attraverso “il premio” a chi viola le regole invece di rispettarle. Effettuare scelte di buon governo quindi significa anche, semplicemente, lottare contro la corruzione.
Il nostro non è un Paese immune da questi fenomeni, come la storia passata ed episodi recenti confermano. Soprattutto in Italia fatica ad affermarsi una cultura di contrasto alla corruzione, cioè una vera riprovazione sociale. Al tempo stesso essa è un reato difficile da discernere, perché rimane nell’ombra. In questo senso la collaborazione della collettività è necessaria, così come lo è una mentalità che sia di osservanza delle regole e di orgoglio nel rispettarle. Ecco perché negli ultimi anni Parlamento e Governo hanno predisposto diversi mezzi, legislativi ed amministrativi, di lotta alla corruzione. Ed ecco anche perché, unitamente al momento repressivo, che rimane centrale, sono stati previsti mezzi di prevenzione: una novità nel sistema italiano, rimasto per molto tempo ancorato a una concezione meramente repressiva del fenomeno. Tali strumenti sono infatti necessari per impedire, o quantomeno limitare, la diffusione dei fenomeni corruttivi e creare un clima di fiducia nei confronti delle istituzioni.
L’Italia si è avviata su questo cammino di “lunga” durata nel 2012 con la legge 190, che tuttora rappresenta il testo principale della materia, rimasta per oltre due anni in gestazione in Parlamento e non a caso
approvata in un momento storico peculiare, quando il nostro Paese viveva una crisi economica di particolare intensità. La principale ragione che ne giustificò l’emanazione fu proprio che una legislazione anticorruzione avrebbe potuto avere effetti benefici sul rilancio dell’economia. È una legge fondamentale, per quanto perfettibile e già modificata in alcune parti: individua gli organi incaricati di svolgere attività di controllo, prevenzione e contrasto della corruzione e dell’illegalità nella Pubblica amministrazione, ma detta anche i meccanismi di controllo. È questa legge che ha istituito l’Anac, Autorità indipendente che presiedo e che ha verso la Pa poteri regolatori, di vigilanza, accertamento ispettivo, di ordine e perfino sanzionatori sotto il profilo pecuniario.
Io credo tuttavia che l’aspetto più importante sia l’orientamento di carattere culturale, che si esplica non attraverso imposizioni ma tramite le indicazioni fornite: l’Anac esercita la vigilanza e il controllo sull’effettiva applicazione e sull’efficacia delle misure adottate dalle pubbliche amministrazioni e soprattutto sul rispetto delle regole sulla trasparenza.
Nello specifico, la legge 190 introduce tre macro-ambiti nei quali intervenire per prevenire la corruzione. Innanzitutto la responsabilizzazione della Pa, perché questa “scommessa” non può essere vinta senza il suo coinvolgimento diretto. In questo senso va l’obbligo per tutte le pubbliche amministrazioni di definire un Piano triennale per la prevenzione della corruzione, che effettua l’analisi e la valutazione dei rischi peculiari per ogni singola amministrazione e conseguentemente indica gli interventi organizzativi volti a prevenirli. L’efficace attuazione del Piano è una grande opportunità per la Pa, non è semplicemente un adempimento burocratico perché consente di gestire e pianificare l’attività dell’ente anche a prescindere dai pericoli di corruzione. Inoltre, altra grande novità, il Piano individua il responsabile interno della prevenzione, che provvede a verificarne l’attuazione e a farlo rispettare attraverso la rotazione e la formazione del personale, la definizione del regime autorizzatorio, le varie inconferibilità e incompatibilità per gli incarichi dirigenziali.
Una importante ed ulteriore misura di prevenzione della corruzione è poi la predisposizione di un sistema di tutela del dipendente che effettua segnalazioni di illecito (il cosiddetto whistleblower). Chi vede illeciti e si gira con la testa dall’altro lato, infatti, non commette un reato ma tiene un comportamento di connivenza che spesso è sintomo quasi di complicità. L’intento quindi è di stimolare la collaborazione dei lavoratori e tutelare chi venga a conoscenza di pratiche corruttive, ma che abbia comprensibile ritrosia a denunciarle per paura di ritorsioni.
La legge Severino ha previsto questo istituto ma non contiene ancora meccanismi di efficace tutela per chi denuncia. Attualmente in Parlamento c’è un ddl, già approvato alla Camera dei deputati, che interviene su questo aspetto. La speranza è che il testo riceva il via libera anche dal Senato, in modo che possa diventare
legge. Sarebbe un ulteriore passaggio rilevante per consentire quel salto di qualità di cui c’è bisogno nel contrasto alla corruzione.
Sempre per restare in ambito di prevenzione, il sistema ha previsto pure l’obbligatorietà per ogni amministrazione di dotarsi di un Codice etico, che deve rappresentare il vademecum dei pubblici dipendenti. Non si tratta solo di affermazioni di principio, dal momento che ogni violazione viene espressamente prevista come un illecito disciplinare.
Attraverso il Piano anticorruzione, il whistleblowing e misure organizzative come la rotazione del personale, la Pubblica amministrazione può svolgere un ruolo di prevenzione vero, reale e fondamentale.
Accanto a questa attività interna, però, ce ne deve essere una rivolta verso l’esterno: la trasparenza, antidoto eccezionale al “buio” di cui la corruzione ha bisogno per potersi affermare. Con il decreto legislativo 33/2013 il nostro Paese ha previsto l’obbligo per la Pubblica amministrazione di dotarsi nei siti web di una apposita sezione denominata “amministrazione trasparente”, consentendo in questo modo a ogni cittadino di avere a disposizione molte informazioni tramite una semplice connessione Internet. Nei mesi scorsi il decreto legislativo 97/2016 ha ampliato la possibilità di ricorrere a un accesso civico generalizzato, con la facoltà di chiedere il rilascio di qualunque atto senza dover dimostrare l’esistenza di un interesse diretto.
La trasparenza, una volta che sarà attuata e soprattutto “digerita” dalla Pubblica amministrazione, sarà il segnale più importante per recuperare la fiducia dei cittadini. Saranno loro stessi infatti a controllarla e a svolgere quel ruolo di “vedetta civica” indispensabile per evitare che si verifichino atti corruttivi.
Ultimo aspetto, ma non per questo meno importante, è la necessità che non vi siano conflitti di interesse, che rappresentano il vero brodo di coltura della corruzione. Chi opera deve rispettare i criteri di imparzialità e soprattutto non trarre vantaggi in contrasto con quelli amministrativi di cui è portatore. Proprio per tale motivo il nostro sistema ha introdotto nuovi meccanismi di incompatibilità e inconferibilità, oltre all’istituto del pantouflage e una stretta rilevante sulla possibilità di svolgere incarichi di altro tipo al di fuori dell’ente pubblico di appartenenza.
Tale complesso di norme tende a costituire un ambiente sociale sano, in cui il rapporto fra Stato e cittadino ha modo di essere saldo e costruito sulla fiducia reciproca. Nel nostro Paese si sente forte questa mancanza di legittimazione reciproca. Ma una amministrazione integra – che obbedisce a regole certe, è trasparente nelle sue scelte ed è resa responsabile di fronte ai propri cittadini – non giova solo al rapporto fra Stato e cittadini. Il buon governo, come si diceva prima, è infatti anche il miglior mezzo per sviluppare l’attività
economica. Un ambiente imprenditoriale genuino, basato su regole normative certe, il riconoscimento del merito e il premio alla sana concorrenza, è frutto di scelte lungimiranti.
Il libro che ho citato in inizio di intervento evidenzia come nelle differenti epoche sia provata la correlazione fra buon governo, inteso come limitazione dei fenomeni di cattiva burocrazia e di responsabilità di fronte ai cittadini, e crescita dell’attività economica. È una correlazione difficilmente confutabile: è assolutamente chiaro che le aziende traggono beneficio da una amministrazione virtuosa. La corruzione, invece, impedisce alle forze economiche sane di esplicare la propria attività e, soprattutto, di ottenere benefici dall’innovazione tecnologica e di prodotto, ovvero dalle forze migliori presenti sul mercato.
Inoltre la limitazione dei fenomeni di corruzione e di cattiva amministrazione sortisce diversi effetti positivi al mercato interno: non impone oneri aggiuntivi alle imprese; premia il merito e l’innovazione; allontana dal mercato gli operatori incapaci di competere sul terreno della concorrenza e dell’innovazione. Ma tutto questo giova anche all’attività imprenditoriale all’estero: un’amministrazione integra, in grado di sostenere correttamente le imprese che operano secondo regole di sana concorrenza anche al di fuori dell’Italia, apporta notevoli vantaggi al loro operato. Senza contare che poter fare affidamento su un Paese che sui tavoli internazionali è leader nella lotta alla corruzione significa poter contare su un forte appoggio degli altri Stati e delle varie organizzazioni sovranazionali.
Da questo punto di vista il complesso di norme approvate nel corso degli anni dal Parlamento costituisce un forte sostegno alle aziende che lavorano seguendo le norme internazionali e può davvero costituire un elemento di vantaggio sui mercati esteri. Bisogna però essere consapevoli che questo complesso di provvedimenti non sconfiggerà in radice la corruzione: l’unica certezza che abbiamo è che non esistono nazioni del tutto immuni da questo fenomeno e che l’uomo è per sua natura esposto alle debolezze ed alle tentazioni. Ma di sicuro un sistema di prevenzione che funziona può contribuire a ridurre la possibilità di corrompere ed essere corrotti, diminuendo drasticamente il numero di casi ed aumentando la fiducia dei cittadini nelle istituzioni. Sarebbe un grande guadagno non solo per le imprese ma anche per tutto il nostro Paese.
Raffaele Cantone
*L’intervento che pubblichiamo su autorizzazione dell’ANAC è stato svolto dal Presidente dell’Autorità Nazionale Anticorruzione alla Giornata internazionale della lotta alla corruzione al Ministero degli Esteri