Il modello danese del mercato del lavoro

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Il primo ministro italiano ha più volte indicato come punto di riferimento per l’attuale riforma del mercato del lavoro il modello tedesco (che abbiamo analizzato in un precedente articolo pubblicato su questa rivista), ma molti esperti continuano a guardare con favore al modello danese, considerato il migliore mercato del lavoro europeo per flessibilità, dinamicità, sicurezza e dignità del lavoratore.

Origine del modello

Il modello danese affonda le sue origini storiche nel patto sociale del 1899, chiamato Accordo di settembre, in cui si stabilì che il datore di lavoro aveva il diritto di gestire la propria impresa, assumendo e licenziando liberamente, mentre il lavoratore aveva diritto alle tutele sindacali e statali per garantirsi una vita lavorativa dignitosa attraverso la contrattazione sull’orario di lavoro e sul salario. Negli anni settanta lo Stato promosse e partecipò al finanziamento di fondi privati di assicurazione per la disoccupazione, collegati, per la maggior parte, ad associazioni sindacali, al fine di assistere e sostenere i lavoratori licenziati. Nel 1993 il governo socialdemocratico di Poul Nyrup Rasmussen decise di riformare il mercato del lavoro per diminuire l’elevata percentuale di disoccupazione e disincentivare l’uso opportunistico dei sussidi disegnando il modello attuale, soprannominato il “triangolo d’oro” in quanto fondato su tre pilastri: un’elevata flessibilità del mercato del lavoro, un buon sistema di welfare e politiche attive efficienti. La flexicurity, una combinazione efficace ed efficiente di flessibilità e welfare, teorizzata nei Paesi Bassi trovò, quindi, la sua migliore applicazione in Danimarca, che passò dal 10,1% di disoccupati nel 1993, al 3,4% nell’anno in cui scoppiò la crisi, il 2008, al 6,5% attuale.

Il modello danese: Flexicurity, Politiche attive dello Stato, Sussidiarietà

La Danimarca è riuscita a mantenere un’alta percentuale di occupati nell’attuale profonda crisi economica mondiale grazie alla lungimiranza delle sue riforme iniziate nel 1993 e successivamente riviste grazie all’esperienza maturata. Infatti a partire dal 2006 sono state introdotte delle riforme che hanno dato maggior peso alle scelte dei governi locali nelle politiche dell’occupazione e nel 2013 è stata rivista in diverse parti la cosiddetta flexicurity.

Le caratteristiche principali del modello sono riassumibili nella flessibilità in entrata ed uscita dal posto di lavoro, nella presenza di una forte rete di sicurezza sociale basata su fondi assicurativi e sussidi statali, in grado di accompagnare il lavoratore mentre lo Stato si impegna attivamente alla ricerca di un nuovo posto di lavoro attraverso i job centres.

I primi due pilastri, flessibilità e welfare, sono ormai considerati inscindibili tanto da formare un pilastro unico del modello: la flexicurity. La flessibilità informa la prima fase del sistema. Il datore di lavoro può assumere e licenziare a propria discrezione, osservando solo alcune condizioni basilari, tra le quali il termine minimo di preavviso che varia da uno a sei mesi a seconda degli anni di anzianità in servizio. Anche il lavoratore è tenuto ad un minino di preavviso per dimettersi, che nella maggior parte dei casi è pari ad otto giorni. Ogni anno un terzo dei lavoratori cambia o perde il lavoro, di questi il 70% lo ritrova entro l’anno. Qui entra in funzione la seconda fase, quella più delicata e costosa, che riguarda il sistema sociale di sicurezza per chi perde il lavoro. Per i lavoratori, pari ad oltre l’80% del totale, iscritti ad un fondo privato di assicurazione per la disoccupazione è prevista un’indennità di disoccupazione che garantisce un buon livello di reddito, per un massimo di due anni, il cui importo può arrivare sino al 90% dell’ultimo stipendio percepito, con la condizione di aver lavorato per almeno 52 settimane negli ultimi tre anni. I lavoratori contribuiscono alle spese di gestione e di finanziamento del fondo, con importi inferiori ai 1000 euro annui, ma la parte più importante la versa lo Stato che contribuisce con una quota annuale che oscilla dal 40% all’80% del totale. Per i lavoratori non iscritti ad alcun fondo, lo Stato prevede una indennità sociale assimilabile ad un reddito sociale minimo garantito che non ha limiti temporali ma è di importo inferiore al sussidio di disoccupazione. Tutti i lavoratori licenziati, aderenti o non ad un fondo, devono iscriversi obbligatoriamente al job centre del comune in cui risiedono per percepire l’indennità e, se non dovessero trovare lavoro entro l’anno, devono sottostare alla condizione di veder diminuire con il tempo la possibilità di rifiutare un qualsiasi lavoro proposto, anche se non corrispondente alla propria formazione, pena la sospensione del sussidio.

Lo Stato e le comunità locali hanno la responsabilità di organizzare tutte le politiche attive del mercato del lavoro che ruotano attorno ai job centres locali, mentre le organizzazioni sindacali e datoriali sostengono la formazione continua dei lavoratori. Il governo centrale ha un ruolo di coordinamento ed indirizzo, ma la maggior parte dell’attività viene svolto sul territorio dai centri per l’impiego locali. Essi hanno il compito di favorire l’incontro fra la domanda e l’offerta di lavoro, assistendo ogni lavoratore licenziato dalla compilazione del Curriculum Vitae sino al reinserimento nel mondo del lavoro, grazie ad una formazione mirata all’aggiornamento delle conoscenze acquisite ed a tirocini formativi in azienda. Questo ha permesso in questi anni di sostenere la maggiore flessibilità e dinamicità del mercato del lavoro danese, rendendolo uno dei mercati europei più adatti ad attrarre nuove attività imprenditoriali. Un’altra parte importante delle politiche attive promosse dal sistema danese è la formazione continua dei lavoratori, che hanno diritto ogni anno, secondo i contratti collettivi o individuali di lavoro, a permessi retribuiti per frequentare corsi di aggiornamento e specializzazione, incrementando la qualità complessiva del mercato del lavoro nazionale.

In questo sistema, dopo le recenti riforme, trova un posto importante il principio di sussidiarietà, in quanto le politiche statali hanno nel tempo assunto il ruolo di coordinamento di un lavoro che viene svolto prevalentemente come servizio pubblico locale. I job centres sono divenuti i responsabili dei servizi per l’impiego e delle politiche sociali. Ad essi compete non solo il compito di analizzare il mercato lavorativo, ma anche di provvedere all’assistenza sociale verso chi ha perso il lavoro, rendendo efficace e trasparente localmente l’azione statale.

Il modello danese è un sistema che mette al centro dell’azione politica il lavoratore in quanto persona e non la difesa del posto di lavoro. Ma la flexicurity ha bisogno per funzionare di una pubblica amministrazione efficiente e trasparente e di un’elevata imposizione fiscale per sostenerne gli alti costi, difficili da sopportare per lo Stato durante questa lunga crisi economica.

Domenico Palermo

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