Come valorizzare il patrimonio culturale italiano (di Mario Ciaccia)

Tutelare e gestire il più grande patrimonio culturale dell’Italia e del mondo in un Paese in cui si ragiona dovrebbe essere al centro dell’attenzione anche perché dovrebbe essere un moltiplicatore di ricchezza, di formazione, di volano di importanti settori dell’economia.
Insomma un vero e proprio generatore di crescita del PIL. Ed invece siamo fermi in un’ottica conservativa che trasforma il generatore in un insaziabile consumatore di risorse.
E allora c’è qualcosa (è un eufemismo) che non funziona.
Il problema più serio, a mio avviso, è l’insoddisfacente affermazione di una “cultura della cultura”, nella classe politica, nella dirigenza e negli stessi cittadini. Questo mi sembra il vero problema di fondo, tanto che a sua volta ne genera altri, primo tra tutti la mancanza di una politica culturale e di un progetto di priorità per il Paese nell’ambito delle altre politiche volte alla crescita ed al superamento della crisi. Atteggiamento che contrasta anche con l’auspicato sviluppo di una “economia della cultura”.
L’attuale limitata visione della cultura, infatti, incide in definitiva negativamente sulla gestione dell’immenso e in parte inesplorato patrimonio artistico, archeologico, architettonico e paesaggistico italiano. Di questo patrimonio e di quello immateriale che le buone attività culturali possono generare non si è pienamente compreso il valore, né dei singoli pezzi, né quello ulteriore che può darne l’utilizzazione congiunta.
In altri termini, non si è lavorato in modo che si verifichi l’endiadi “cultura è anche economia” – “economia è anche cultura”.
In un quadro di regole obsolete, le entrate dei siti museali ed archeologici rimangono  legate essenzialmente alla vendita dei biglietti, i cui prezzi tra l’altro non coprono neanche le spese di manutenzione  e non vengono nemmeno allineati al tasso di inflazione. Ciò induce l’Amministrazione pubblica ad un atteggiamento elemosiniero nel tentativo di assicurarsi dal bilancio pubblico e dal mecenatismo i fondi mancanti. L’indotto diretto del settore è limitato poi all’affidamento a privati di attività assolutamente marginali, scarsamente redditizie ed oltretutto oggetto di un forte contenzioso, quali la gestione del bookshop, il guardaroba e la caffetteria.
Il risultato più eclatante è che l’Italia, pur avendo il patrimonio culturale più ricco del mondo, è solo al 28° posto per competitività nel turismo. La Cina fa fruttare i suoi siti Unesco tre volte più del nostro paese. Il Colosseo incassa solo un settimo del Metropolitan Museum di New York. Il Museo del Louvre fattura in un anno quasi la stessa cifra che incassano tutti i musei e i siti archeologici d’Italia messi insieme.
Un altro grande potenziale, pochissimo utilizzato economicamente, è offerto dal ricco sistema archivistico e delle biblioteche, su cui molto guadagnano i privati, ma i ritorni allo Stato per la conservazione e il restauro sono quasi nulli.
Il mercato italiano dell’arte contemporanea presenta poi gravi lacune, creando un vero dramma per i nostri giovani artisti, che privi di idonei ausili, restano spesso fuori dal mercato e, quindi, fuori dai circuiti internazionali.
Tra le attività culturali è appena il caso di accennare alle enormi e spesso mancate possibilità di sviluppo economico, soprattutto in termini occupazionali, che può dare il cinema, settore in cui l’Italia è stata leader per lunghi anni. La cinematografia nazionale appare in flessione continua: nel primo trimestre 2013 ha registrato una perdita del 5% del box office, rispetto al 2012, che già aveva fatto registrare un meno 10%.
Nell’ambito poi delle attività a contenuto non industriale, anche lo spettacolo dal vivo con le sue varie tipologie (teatro, musica, commedie musicali, concerti, lirica, danza) reca un onere pesantissimo per la collettività, specie con la lirica, senza creare un adeguato valore aggiunto. Eppure si tratta di un settore in cui le capacità artistiche ed il modello italiano di creatività consentirebbero un posizionamento competitivo sullo scacchiere internazionale.
Vi è, quindi, una carenza evidente nel dialogo tra l’amministrazione pubblica – che trova difficoltà nell’unire alle politiche culturali anche quelle di sviluppo economico – ed il settore privato, nei confronti del quale vi è talvolta contrapposizione. Sarebbe auspicabile invece un forte stimolo al contributo privato, non solo sotto il profilo finanziario, ma, anche qui, culturale.
L’impraticabilità di una dilatazione dell’intervento pubblico impone dunque il richiamo di ingenti capitali privati. I fatti dimostrano, invece, che si sta ancora fermi al palo di partenza, sia per inerzia, sia, in taluni casi, in specie negli enti locali, per l’opposizione di forti resistenze.
Come avviene per il turismo, settore che presenta strettissimi legami con quello dei beni e delle attività culturali, manca un disegno strategico unitario e difetta il coordinamento tra i diversi livelli di governo centrale, regionale e locale. Il che genera una notevole dispersione di risorse e compromette i ritorni.
A livello di enti locali spesso si agisce in modo incoerente. Ad esempio, si fanno i lavori per siti archeologici che non si aprono poi alla fruizione perché non vi sono i soldi per il personale o mancano le strade per accedervi.
Il mancato sviluppo di una visione moderna della cultura, consapevole della sua importanza per lo sviluppo civile ed economico del Paese, si è riflesso anche sul quadro normativo, fermo alla ormai superata legge Ronchey, anche se si è potuto registrare qualche cenno di modernizzazione con il Codice dei beni culturali e del paesaggio.
Ha reso poi inestricabile il groviglio normativo la riforma del Titolo V della Costituzione, che, com’è noto, ha ripartito in modo irrazionale tra Stato e regioni le due inscindibili funzioni di tutela e valorizzazione dei beni culturali ed ambientali, complicando notevolmente i nuovi percorsi di decentramento amministrativo e gestionale. La stessa riforma ha creato problemi analoghi per il settore del turismo, cui è strettamente collegato il comparto dei beni culturali, specie sotto il profilo del turismo culturale.
Un timido tentativo di sciogliere questi nodi è contenuto nel Codice del turismo, approvato con il decreto legislativo n. 79 del 2011, che mira  a riportare nella competenza unitaria dello Stato un sistema peraltro non ben delineato.
Le criticità che ho elencato, ma non sono tutte, se guardiamo ai numeri, portano a scoprire che siamo indietro rispetto a Paesi che non hanno la fortuna di avere un patrimonio culturale come il nostro. E sono proprio i numeri che anche in un delicato settore come la cultura sento il dovere di prendere in considerazione.
Sulla base dei dati raccolti dalla recente ricerca di Unioncamere e Fondazione Symbola, il sistema delle industrie culturali e creative (beni culturali, arti visive, rappresentazioni artistiche, editoria, cinema, radio e televisione, design, made in Italy, architettura e pubblicità) vale, sul 2011, il 5,4% del Pil, cioè quasi 80 miliardi, frutto del lavoro di 1 milione e 390 mila occupati e con una proiezione all’estero tale da portare, nello stesso anno, ad esportare beni per oltre 38 miliardi di euro.
In particolare, il sistema dell’industria culturale produce circa il 2,51% del Pil, mentre quello dell’industria creativa il 2,54% (la piccola differenza per arrivare al totale del 5,4% corrisponde al fatturato del settore culturale non industriale). Il settore creativo è per sua natura più orientato al mercato e presenta pertanto una più forte capacità di creare valore. Appare evidente quindi come i flussi di trasferimento dalla sfera culturale a quella creativa vengano a generare effetti moltiplicatori.
Tuttavia, l’indicatore di Ritorno sugli Asset Culturali (RAC), che, com’è noto, esprime la capacità di estrarre valore economico dal patrimonio culturale, è in Italia un sedicesimo di quello degli Stati Uniti di America, un settimo di quello della Gran Bretagna e un quarto di quello della Francia. Tale indicatore è sintomatico delle difficoltà esistenti nella utilizzazione economica dei beni culturali. Al tempo stesso esprime, quand’anche ce ne fosse bisogno, le enormi potenzialità di crescita del nostro Paese.
Esistono dunque amplissimi margini di miglioramento del sistema cultura sia, sotto il profilo sia della capacità di generare valore, sia sotto quello di un adeguato incremento dell’esportazione. Diversi paesi hanno invece hanno dato alla propria produzione culturale una estesa circolazione a livello globale. In Italia non siamo ancora riusciti a sviluppare tale capacità. E’ questo un grave handicap, tale da pregiudicare anche la nostra capacità di esportazione della produzione creativa.
E allora bisogna fare il massimo sforzo per assicurare, tra pubblico e privato, la copertura finanziaria ad un programma, razionale e coordinato, di primi interventi prioritari che fungano da volano per dare una scossa al settore. Proviamo ad uscire dall’incubo e a guardare con fiducia il futuro.
Una riflessione che mi sembra importante per ipotizzare una prima terapia d’urto riguarda i siti culturali che la statistica ha classificato tra i primi 30. Tra i tantissimi siti sul territorio sono infatti soltanto 30 quelli che raccolgono più della metà del totale dei visitatori dei musei statali. Occorre, ritengo, un approccio fortemente integrato, capace di coinvolgere una molteplicità di soggetti e valutare, in altri termini, se un bene culturale può fungere da catalizzatore di tutte le risorse presenti sul territorio, quali le altre attività culturali (teatro, cinema, musica, danza e sport), le risorse naturali, quelle turistiche, l’offerta di servizi di accessibilità e di accoglienza, le attività artigianali, le risorse gastronomiche e, così via.

In prospettiva, pertanto, un’articolazione del territorio in veri e propri “bacini di utenza e sviluppo della cultura e del turismo”, dovrebbe comprendere un sistema integrato di infrastrutture intese a valorizzare tutte le risorse in esso presenti, sia materiali che immateriali.
Un passaggio fondamentale è che la leva potenziale non deve investire solo le risorse turistiche, culturali e ambientali, ma anche tutte le forze produttive del territorio. Si tratta quindi concretamente di costruire progetti intesi ad unire imprese, operatori e soggetti diversi che vanno messi insieme per conseguire obiettivi altrimenti irraggiungibili.

Occorre, pertanto, esternalizzare le attività a carattere non strategico, concedendo la gestione dei beni culturali a soggetti privati, lasciando la funzione di tutela in capo allo Stato e potenziando il monitoraggio ed il controllo, anche ispettivo, dell’Amministrazione pubblica. In altri termini: seguendo l’esempio dei modelli applicati negli Stati Uniti d’America, nel Regno Unito, in Russia ed in Francia, ottimizzare il valore economico dei beni attraverso forme organizzative e tecnologiche avanzate.

Si tratterebbe, in sostanza, di conciliare il carattere pubblico del servizio con l’organizzazione imprenditoriale del soggetto gestore (che avrebbe soltanto l’uso del bene o del complesso dei beni facenti parte del bacino), e quindi di non instaurare un processo di privatizzazione di beni culturali. Occorre pertanto, ripeto, una terapia d’urto. Una terapia importante per recuperare risorse indispensabili per la tutela dei beni culturali e per lo sviluppo economico che può portare rilevante benessere al Paese.

Al fine di promuovere un forte coinvolgimento del capitale privato, è ipotizzabile la costituzione di società miste pubblico-privato, secondo un modello basato sull’affidamento a tali società della gestione di beni culturali da raccogliere in bacini che potremmo definire “di eccellenza” per il potenziale che essi esprimono in termini di risorse endogene.

In altri termini affidando concessioni ventennali, in un quadro di certezze contrattuali e di chiara ripartizione dei ruoli tra pubblico e privato, si creano le condizioni per consentire ai privati di investire in una prospettiva di lungo periodo, anche al fine di sviluppare servizi aggiuntivi.
I meccanismi moltiplicatori che possono generare gli investimenti nel settore allargato secondo parametri predisposti da studi attendibili sono molto potenti; si riporta, ad esempio, in studi della Confcommercio e, ripetutamente, anche nelle sedi istituzionali, che un euro investito in beni culturali generi un ritorno indotto complessivo di 4 euro per il turismo culturale.

E allora diventa finalmente vero che i beni e le attività culturali non costituiscono soltanto un costo, ma possono divenire un catalizzatore di tante attività, attraverso la creazione di un vero e proprio volano per il lancio dell’economia, di filiere anche trasversali con altri importanti settori, a cominciare dal turismo e dalle attività creative, e di forti incubatori di posti di lavoro. Fattori tutti di vitale importanza in tempi di crisi.

Credo inoltre che una seria responsabilizzazione dei livelli di governo locali ed un avvicinamento al mondo delle imprese, specie di quelle di dimensioni medio-piccole, possa dare un decisivo contributo al rilancio della cultura, assicurando un miglior coordinamento con l’Amministrazione centrale ed evitando duplicazioni di spesa.
E qui l’economia, come ho accennato in apertura, diverrebbe cultura, invogliando anche il cittadino a rendersi partecipe dello sviluppo civile, sociale ed economico e, cioè, del futuro del suo Paese.

Mario Ciaccia

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